cucina euganea

Ediz. A Bugia, ca. 1940

Si può parlare di una cucina euganea, caratterizzata da naturalità e genuinità?

Non si può certo parlare di una cucina euganea, anche se l’unicità del territorio, una sua personalità ambientale e visiva ben definita ― per quel suo staccarsi come isola nel mare delle pianure – può determinare nella percezione collettiva il riconoscimento di una qualche tipicità. Per via dei prodotti, innanzitutto, quel vino e quell’olio che sono stati parte integrante del paesaggio e della sua storia, per la frutta, gli animali del cortile, per via della caccia, un tempo molto diffusa, per finire coi prodotti del bosco e quei gamberi di monte che offerti ai membri della confraternita convenuti sul Venda per la festa di san Giovanni, costituivano una prelibatezza, non così élitaria come oggi sono.  

Ma quel che caratterizza forse la cucina euganea nel sentire comune che la individua e ne precisa i contorni è una sorta di naturalità e genuinità — quel  bon snaturale  di cui parla il Ruzante — per cui l’evasione verso i Colli che nei secoli ha attratto fasce sociali e gruppi diversi (dal villeggiare del nobile veneziano Alvise Cornaro, ai villini della borghesia padovana nel primo Novecento, all’afflusso di massa con le lambrette negli anni Settanta) si è spesso accompagnata nella mentalità ad un ritorno alla semplicità del mangiare sano e robusto, talvolta propenso all’abbuffata ed all’eccesso.  

E se qualche piatto può essere emerso nella cultura alta della gastronomia dei trattati di corte come i “pippioni torraiuoli” nel libro del “trinciante” Mattia Geigher, o le “pomele” nei ricordi dell’esule Giuseppe di Castelvetro (cioè quelle olive, così indicate nella parlata locale), il mangiare euganeo è però vissuto come prossimo al filone della tradizione contadina veneta in genere, ispirato anch’esso ai valori della semplicità e della povertà, ma sarebbe più giusto dire alimentato dalla necessità e dalla penuria.  

Il contesto storico: il’900 e l’avvio del turismo enogastronomico

Nella seconda metà del Novecento – a mano a mano che i colli sono entrati nel circuito del turismo locale e poi internazionale – si può cominciare a tratteggiare una vulgata gastronomica locale, che pur innestandosi nel filone della tradizione padovana, introduce qualche elemento di personalità.

L’installazione della linea tramviaria (nel 1911) che facilita la comunicazione tra la città e i colli, la terebrazione dei pozzi che consente l’aumento delle strutture alberghiere nella vicina zona termale, il miglioramento della rete viaria e la risoluzione del gravoso problema del rifornimento idrico, hanno posto le premesse affinché i colli diventassero meta di un turismo che ha fatto proliferare i locali.

Le osterie dei colli nella prima metà del secolo XX probabilmente non erano molto diverse da quella di Monselice descritta dal Seume nel suo viaggio del 1802, dove non trovò che un poco di vino, niente pane e dovette accontentarsi di una cattiva polenta

E’ nel secondo dopoguerra che l’accelerazione si fa sentire e nei Colli si riversano centinaia di “vespe” e lambrette e gitanti del fine settimana affollano locali dove si offre torresani, pollo alla diavola e bigoli – i menudelli del Savonarola. Altro cavallo di battaglia è il pollo fritto – lo stesso di cui ci racconta lo scrittore americano Howells nel suo pranzo all’osteria di Arquà: il nostro pranzo era pronto quando ritornammo all’osteria e ci sedemmo di fronte ad un pollo arrostito nell’olio e ad un boccale di vino bianco di Arquà. Era un pasto modesto, ma l’olio mi piaceva e lo trovai saporito; il vino poi era forte e buono, anche se trova da ridire sul prezzo del pollo quando il padrone si curvò sul tavolo e ci fece il conto con un pezzo di gesso. E ancora polenta e soppressa, bigoli in salsa, risotti d’ogni sorta con bisi, con erbe spontanee e funghi, polenta e osei allo spiedo, sparesi e ovi, pasta e fasoi.

Seume J. G., L’Italia a piedi 1802, Milano 1973, p. 124.

 

Howells W. D., Pellegrinaggio alla casa del Petrarca in Arquà, riportato in “Padova”, 3 (1957), n. 4/5, p. 3-13, con nota introduttiva e versione dall’originale di G. Vaccari (p. 12).

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